domenica 31 gennaio 2010

Il Resto dell'anima

Il pubblico uscì da teatro che era quasi mezzanotte. Un mite libeccio li accolse per accompagnarli verso la piazza. Qualcuno, come d'abitudine, si riparò sotto il porticato ma Fabio e Luciano si tennero accostati al muro, sotto l'ala della grande abside del Duomo.
- Il concerto di Natale mi piace - disse Fabio a bassa voce, quasi tra sè e sè - ma più per il pubblico che per la musica. Uno dei rari momenti in cui mi sento parte di una comunità. La città si ritrova, sento quasi l'anima. Lo so che è l'illusione del kitsch, eppure quasi mi commuovo fino a sentirmi protetto da una grande ala. Per l'articolo di domani voglio correre il rischio di descriverla. -
Luciano aveva ascoltato senza rovinare quel pathos col suo scetticismo. Stavano per arrivare in piazza e voleva vedere coi propri occhi se il collega aveva ragione. Quando arrivarono la piazza era vuota, i bar chiusi.
- Eccola, la tua anima di Urbino. Il nulla. Anime morte. Chi è uscito da teatro ha già raggiunto l'auto e se ne sta andando a casa, in periferia. Quelli che abitano in centro è da un pezzo che non vanno più a teatro. Troppo vecchi,
el piò pcin ha otant'an. Tra un po' se ne andranno per sempre e addio a quel che resta dell'anima. Tu scriverai sul Corriere di un'anima che io sul Carlino dichiarerò già morta. E vedremo cosa diranno i lettori. -
- Invece ti sbagli - disse Fabio indicando gente che veniva da via Raffaello -
- E questi,
do van a st'ora? - si meravigliò Luciano guardandoli.
- E non basta - aggiunse Fabio - guarda, c'è gente che sta arrivando dal teatro. Adesso li voglio intervistare, voglio chiedergli cosa vengono a fare e dove andranno a dormire. Dove, in quali case, che vita fanno, se sono felici e che rapporto ha la loro felicità con questi luoghi e questa ora. -
- Va bene, allora vorrà dire che io farò l'avvocato del diavolo. -
Arrivarono quelli che erano stati i loro vicini di palco. Fabio esibì il taccuino.
- Scusate signori, posso farvi delle domande per il giornale?
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Fabio si era rivolto a un gruppo di uomini e donne che conversavano procedendo a passo veloce .
- Come vi è sembrato il concerto?-
-Bello come al solito- rispose una signora sulla cinquantina. - L'appuntamento a Teatro poco prima di Natale è una tradizione di Urbino. Ci veniamo ogni anno. Non si può mancare-.
Proprio in quel momento Fabio e Luciano vennero quasi travolti da un insieme di giovani che parlavano ad alta voce. Sembravano su di giri, non avevano un accento locale. Saranno stati in sei o sette, in maggioranza ragazze. Età apparente sui 20 anni.
-Scusate!-disse quello che sembrava essere il più allegro della compagnia. Fino a poco prima aveva camminato all'indietro discutendo animatamente con gli amici, i quali rispondevano con risate altisonanti. Procedendo a ritroso era andato a urtare contro Luciano facendogli quasi perdere l'equilibrio. All'impatto seguirono altre risate.
-Scusi, è il solito fuori di testa! - Si giustificò una delle ragazze.
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Era avvolta dentro una lunga sciarpa verde, una sciarpa di lana grossa, di quelle che sembrano fatte dalle nonne. Luciano, che ancora vacillava per l'urto subito, rivolgendosi a Fabio, ma facendosi ben sentire anche dal ragazzo che lo aveva colpito, esclamò sprezzante:
- Eccola qui l'anima della "nostra" città! Uno sconosciuto mezzo ubriaco che ti casca addosso nella notte di Natale! Non se ne può più di queste orde di stu... - e avrebbe concluso con un generalizzante "stupidi", ma solo perché i suoi principi egalitari non gli consentivano un discriminante "studenti". Tuttavia, Luciano non terminò mai quella parola, perché proprio mentre stava per completarla, nel volgersi verso Fabio incontrò invece gli occhi della ragazza. Erano verdi come la sua lunghissima sciarpa.
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- Scusi ancora...- disse con un sorriso la giovane. - E' la nostra prima sera ad Urbino e già ci siamo fatti notare...-
- No, non è niente - ribattè Luciano.
- Prima sera? - si intromise Fabio - Allora non siete studenti universitari qui da noi? -
- No - rispose la ragazza dalla sciarpa verde. - Siamo qui in vacanza. I miei hanno una casa da queste parti.-
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- Elisa! - la signora in pelliccia che stava parlando con Fabio riconobbe la ragazza - ma che ci fai a Urbino?
La ragazza le andò incontro e la baciò - Ciao, Zia. Mamma non ti ha detto niente? Siamo a Ca' Bella, io e i miei amici, fino all'Epifania.-
- Oh mamma mia, una ragazza vivace come te viene a passare il capodanno a Urbino? - si meravigliò la signora.
- Ma dai, zia, abbiamo una villa splendida, piena di ben di Dio, salami, prosciutti stagionati, una cantina che è meglio di un'enoteca, ma scherzi? Anzi, perché non venite tutti là? Anche voi, signori giornalisti. Mi serve un expertising: ho trovato in cantina una cosa molto strana.
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Il riferimento era ad una tela di circa 50 x 60 cm apparentemente dipinta di getto, senza disegno preparatorio e, soprattutto, con una strana disposizione delle figure all'interno dello spazio disponibile. Un cielo velato da nubi lontane, un grande scoglio in primo piano sul lato sinistro e una donna in basso, sdraiata e intenta a raccogliere i propri pensieri. Tutta l’altra metà del quadro, invece, un’unica grande idea di mare confuso col cielo, senza una forma decisa, dipinta con una pasta molto leggera e, soprattutto, senza alcun appeal emotivo.
La cosa che colpì i ragazzi di fronte a questa tela fu perché mai questa differenza tra le due metà dipinte; perché a sinistra figure, ombre e significati e a destra un vuoto falso, senza corpo né identità? E poi, cosa non trascurabile, il quadro era firmato Plinio Nomellini, pittore non certo della domenica, e quindi ben consapevole di ciò che stava realizzando.
La risposta o perlomeno un primo indizio saltò fuori girando la tela su se stessa e percependo dietro quelle pennellate sfiorate del mare, un ritratto di uomo con baffi e camicione bianco, forse un pigiama o piuttosto un camice da lavoro, che risultava del tutto invisibile a quadro dritto. Ora le questioni erano tante e molto lontane tra loro: Nomellini aveva volutamente velato il ritratto, lasciando comunque la possibilità di percepirlo o era soltanto una crosta ridipinta? Chi è quell’uomo e perché nasconderlo dietro ad un mare impalpabile non pari a nessuna delle sue conosciute pitture?
“Una cosa strana!?” I due urbinati avevano capito bene. Si zittirono d’un tratto e si guardarono facendosi seri in volto come in cerca di una assenso condiviso e privo di esitazioni. Poi, mentre con gli occhi stabiliva con i ragazzi una già decisa adesione all’invito nella casa del “mistero”, Luciano pensò a Lorenzo, l’amico d’infanzia e di tante altre coinvolgenti ricerche nei meandri infiniti e oscuri della città ducale.
- Senti Luciano: di fronte a un invito così intrigante e appetitoso, io abbandonerei l'idea del sondaggio crepuscolare.
- No, abbandonare no. Direi anzi che l'inchiesta prosegue e si approfondisce - rispose il collega - . Quando sente parlare di una "cosa strana" un giornalista si butta come un topo sul formaggio. Andiamo!
...
La comitiva, formata dal gruppo di giovani, inclusa la ragazza dagli occhi verdi e sua zia Elda Mancini, e i due giornalisti amici e rivali, si organizzò; ciascuno si diresse alle proprie auto, dandosi appuntamento a Ca’ Bella. Dato che i due giornalisti non sapevano dove si trovasse, la signora Mancini cercò inutilmente di spiegare loro la strada, concludendo:”Bè, forse è meglio che seguiate la nostra macchina”. La comitiva si diresse, come una piccola processione meccanica di 3 automobili, verso Castel Cavallino, per poi inoltrarsi lungo una stradina di campagna che terminava di fronte ad un grande cancello di ferro, dietro al quale si stagliava imponente Ca’ Bella. Il nome non poteva essere più appropriato, perché si trattava davvero, almeno a prima vista, di una bellissima villa antica in stile rinascimentale, adornata di un elegante porticato ad archi, le cui colonne erano coronate da capitelli che ricordavano quelli del cortile del Palazzo Ducale.
Una volta parcheggiate le automobili sul grande prato prospiciente la casa, tutti scesero con circospezione, intimoriti dall’imponenza della villa, e guardandosi gli uni gli altri come per farsi coraggio. La storia del mistero del quadro li aveva affascinati, ma il carattere in qualche modo senza tempo della villa, il buio sinistramente illuminato da una luna con riflessi rosso sangue, e l’enorme silenzio che tutto avviluppava, stavano facendo virare quel fascino verso una inspiegabile inquietudine.
Elisa, la ragazza dagli occhi verdi, dovette accorgersi di quell’esitazione perché, come a rompere l’incanto, gridò:” Oh, mica ci sono i fantasmi in ‘sta casa! Andiamo dentro, e prepariamoci a mangiare e bere come si deve!” Immediatamente la tensione si allentò, tutti scoppiarono a ridere, e si accinsero ad entrare in casa, dimentichi del mistero e con l’attenzione rivolta al banchetto che si preannunciava.
Una volta che il massiccio portone di legno scuro fu rinchiuso alle loro spalle, Luciano e Fabio si ritrovarono dentro una grande taverna dai muri di pietra. L'ambiente era pressoché spoglio, ma i pochi oggetti presenti erano capaci di donare garbo ed eleganza: una cassapanca dall'aspetto pregiato dipinta a fiorami sul coperchio, un piccolo scrittoio laccato dalle forme sinuose, un comò in mogano sormontato da uno specchio incorniciato, un grande tavolo dalle linee semplici ed accoglienti e, infine, un bellissimo camino incastonato nel muro, di quei camini ampi che c’erano una volta, quelli come li vedi ancora al Palazzo Ducale, pensò di nuovo Luciano. Mentre zia Elda si apprestava ad apparecchiare la grande tavola, Fabio si ritrovò impegnato ad accendere il camino e Luciano – ormai incapace di resistere alla curiosità – approfittò della vicinanza di Elisa per chiederle se, nell’attesa del banchetto, fosse possibile dare una sbirciatina al dipinto misterioso.
Elisa strizzò gli occhi verdi in segno d’intesa e fece cenno a Luciano di seguirla in cantina. La tela era appesa alla bell’e meglio - storta e senza cornice - su una parete scrostata e ammuffita, tra un armadio traballante e una bicicletta arrugginita. Chissà cosa ne penserebbe Nomellini, si disse Luciano, ma poi pensò al pittore, a quella sua riservatezza assoluta che spesso rasentava la scontrosità, pensò a quella coppola lisa che portava sempre calata sugli occhi, quasi a non voler vedere nessuno… beh, in fin dei conti, tagliò corto tra sé Luciano, forse Nomellini sarebbe anche contento di questa segregazione in cantina. Nel frattempo Elisa, che aveva staccato il dipinto dalla parete, tirò fuori una torcia dall’armadio. – Con questa si vede meglio il ritratto nascosto – spiegò a Luciano e, nell’accenderla, il fascio di luce bianca le colpì le iridi. Luciano non poté fare a meno di notare che quegli occhi non solo erano verdi, ma erano anche attraenti.
..
Ebbe, così, una sensazione di incertezza, quasi di smarrimento, non si aspettava quello sguardo e soprattutto non era pronto a condividerne e reggerne il contatto. Anche la ragazza si fermò e tacque come se avesse percepito il suo imbarazzo ma non fece nulla per aiutarlo, anzi, come sorpresa anche lei di quel gioco di sguardi, abbassò leggermente il viso mantenendo il contatto e accennando un timido sorriso che Luciano sentì piombargli addosso come un uragano che lo fece tremare di un freddo improvviso.
Quell’attimo infinito per fortuna di entrambi finì. La porta alle loro spalle, infatti, si aprì e in controluce comparvero due ragazzi in compagnia di Fabio che, ancor prima di entrare completamente in quella dimenticata cantina, era già pronto ad esplorarne ogni angolo in cerca del misterioso dipinto. Ma quando vide i due, soli, uno di fronte all’altro sfiorati da un timido fascio di luce e in una sorta di reciproca contemplazione si chiese per un attimo cosa stesse succedendo, si dimenticò del quadro e non esitò a pensare che seppur l’avventura fosse appena iniziata, altre cose strane sarebbero accadute in quella casa.
- Venite – disse allora Elisa rivolgendosi ai tre e lasciando trasparire un leggero rossore mitigato dall’oscurità.
Fabio non fece quasi caso a quell’invito ma, piuttosto, avanzando cercava negli occhi di Luciano qualche doverosa risposta a quella strana situazione.
Sentendosi, così, come in dovere di giustificarsi per ciò che non era accaduto, Luciano alzò le sopracciglia e protese leggermente il mento in avanti per rispondere alla sua tacita domanda. – Non so cosa stia succedendo. Cosa stai pensando? È tutto normale! – sembrò dire, anche se entrambi, conoscendosi, sapevano bene che forse così normale il tutto non era o, magari, non lo era stato.
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Ma cos’era scattato nella mente e nel cuore di quei due? Lei, pur nella sua giovane età sapeva di cosa si trattasse, le erano sensazioni familiari, ci faceva i conti dalla pubertà e senza che il tempo l’avesse mai interrotte per molto. Non sapeva ancora che un giorno sarebbe arrivata una leggera foschia all’orizzonte. Che se fosse stata fortunata, un bel matrimonio le avrebbe impedito di accorgersi che l’aria si stava raffreddando, che si stava annunciando la sera anche se ancora il sole era ancora alto.
Quando ti rifugi in casa, è vero, ti senti al riparo dal gelo della sera ma non respiri più neanche l’aria fresca del mattino. E Luciano da troppi anni aveva nei polmoni il tepore degli affetti domestici per non avvertire una fitta talmente lancinante da fargli male fisicamente. Era stordito da un dolore del quale sentiva di voler soffrire, e anche se lo sguardo dell’amico aveva in sé un muto rimprovero, dentro di lui già la passione lavorava e diceva “è invidioso!”
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Ehi! Matusa!!!!....riuscite a risalire o debbo mandarvi dei rinforzi!? La voce cristallina di Elisa riportò Luciano alla realta'.Con un' agile mossa l'uomo scarto' l' amico e, a voler lasciare quel groviglio di ingenui pensieri nel sotterraneo, sali' frettolosamente le scale.
Visto come Elisa e Luciano erano scappati da una situazione che si era fatta imbarazzante, e come erano tornati sopra apparentemente dimenticandosi del misterioso quadro, Fabio e gli altri si accodarono e rientrarono nella grande cucina che nel frattempo, grazie al lavoro di un trio di studenti coordinato dalla signora Elda, si era trasformata. Sulla grande tavola rettangolare di legno massiccio era stato imbandito un banchetto, rustico ma certo non povero, ricco di salami, prosciutto e svariati formaggi, cresce sfogliate e caraffe di vino rosso che brillavano dei riflessi della luce dei due lampadari stelle ducali, e del fuoco che cresceva nel grande camino di pietra. Come una chioccia coi suoi pulcini, la Elda si impose sulle distrazioni e tensioni che già si agitavano un quella comitiva di amici sconosciuti, gridando con voce potente:"A tavola! Tutti a tavola!".
Mentre tutti si avviarono ad occupare una posizione attorno al tavolo, Fabio aggiunse:"Si, a tavola, così qualcuno potrà spiegarci qualcosa di più su questo quadro inspiegabile, talmente misterioso da non poter essere visto neppure da coloro che, come me, sono andati espressamente in cantina per vederlo." Notando il tono vagamente polemico di Fabio, Elisa rispose con voce conciliante e con un ampio sorriso sulla bocca:"Dai sediamoci, che mentre mangiamo vi racconterò io un po' di cose su questo quadro. Ho fatto qualche ricerca tra Internet e la biblioteca, e ho delle informazioni che potrebbero esserci utili." Con ciò, tutti si affrettarono a sedersi, e mentre le mani erano già al lavoro per afferrare i bocconi più prelibati, le menti erano in attesa e pendevano dalle labbra di Elisa.
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Dunque - disse lei appoggiando entrambe le mani sul tavolo come chi deve accingersi ad un discorso ufficiale – intanto dovete sapere che questa casa, ancor prima di essere, com’è oggi un luogo in affitto, era di proprietà di un ricco signore toscano, tal Ferruccio Cinthi, che per diverse ragioni dovette, verso la fine dell’ ‘800, abbandonare Firenze e cercare ricovero altrove. In effetti – aggiunse Elisa - si seppe poi che le ragioni della sua dipartita fiorentina furono in particolare due e ben diverse tra loro. La prima riferibile a vivaci frequentazioni anarchiche e la seconda ad altrettante esuberanti frequentazioni di Cattarina Viviani moglie di un notabile molto in vista in quel tempo a Firenze. – A quell’ultima allusione galeotta Luciano, quasi per riflesso, non poté fare a meno di volgere lo sguardo verso l’amico che sembrava già pronto a ricevere i suoi occhi vispi e messi di traverso come per non farsi scoprire.
– Le ragioni, - proseguì Elisa – come potete immaginare erano più che sufficienti per giustificare un suo allontanamento da Firenze e il semplice fatto di avere un trascorso da studente ad Urbino e di conseguenza anche qualche conoscenza fidata, lo spinse nella primavera del 1893, verso la città ducale. Qui, in breve tempo, riprese contatto con i vecchi amici, spiegò loro le ragioni della sua presenza e soprattutto chiese un luogo dove poter, in tutta tranquillità, continuare a coltivare i suoi interessi.
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Eppure, proprio quando crediamo di aver dipanato i fili della nostra vita, questa si diverte a ingarbugliarli, e sembra accanirsi proprio con le anime dei poeti e degli artisti, forse per loro natura inclini a non acquietarsi mai. Così, una mattina tersa di marzo, mentre se ne stava chino a rimirare le foglie della Santotreggia che facevano capolino da sotto la neve, il profumo di quell'erba a lui tanto cara sembrò mescolarsi ad altre essenze che pure conosceva: alzò gli occhi verso il sole dell'est e da un'ombra familiare si illuminò quel sorriso che era stata la sua felicità e la su aperdizione: Cattarina era lì, per sconvolgerlo ancora.
La prima cosa che d’istinto pensò e fece, fu quella di guardarsi attorno come per assicurarsi che fosse sola e che nessuno potesse vederla, li, davanti a lui col suo sorriso imbarazzante e quegli occhi che tanto aveva desiderato incontrare in quei giorni di lontananza. Aveva una borsa da viaggio, piccola, che anticipava ad un breve allontanamento domestico, quasi una fuga, e una specie di cartella di cuoio legata con un nastro per tutti e quattro i lati come per evitare che potesse uscirne qualcosa. Allora le chiese il motivo della sua venuta, come avesse fatto a sapere il luogo del suo ricovero e, soprattutto, se le fossero mancate le sue carezze galeotte e sincere. Un bacio languido e passionale rispose ampiamente alla domanda che più interessava a Ferruccio che, appena si riprese dal calore di quelle labbra, cominciò ad ascoltare Cattarina.
Lei, abbassando la voce come per non farsi sentire da estranei, cominciò a raccontare una serie di episodi che erano successi negli ultimi tempi a Firenze in ambiente anarchico. Raccontò di ricerche, perquisizioni, condanne e altri episodi minacciosi che stavano avvenendo nei confronti dei loro comuni amici. Poi, con circospezione, aprì quella strana di cartella di cuoio ed estrasse un quadro avvolto in un panno di velluto. Lo mostrò a Ferruccio e disse – Questo è di Plinio. Vuole che lo conservi tu e si raccomanda di non mostrarlo a nessuno. Poi, sarà lui a mettersi in contatto con te -
"Bene -intervenne allora Fabio- finalmente arriviamo a questo benedetto quadro." La tavolata di commensali,che era rimasta come incantata dalla narrazione di Elisa e dai suoi risvolti romantici, si girò verso Fabio come risvegliandosi da un sogno. Fabio, accortosi di aver catturato, con quel suo improvviso e stentoreo intervento, l'attenzione generale, si rivolse direttamente ad Elisa:"Elisa, perché non ci racconti qualcosa di questo pittore? Plinio Nomellini si chiamava, no? E avete detto che era un pittore abbastanza famoso, anche se io per la verità non ne ho ai sentito parlare? Chi era questo Plinio Nomellini? E perché mai avrebbe dovuto inviare un quadro da Firenze ad Urbino? Forse si trattava di un tentativo di compensazione postuma per la spoliazione, legittima ma ingiusta, realizzata nel 1631 con il trasferimento a Firenze dei dipinti dei Duchi di Urbino?
La domanda rimase sospesa in aria, i commensali furono attirati da un rumore che proveniva dall'ingresso della villa. Elisa chiese silenzio, e si sentì il suono ripetuto del campanaccio attaccato al cancello esterno. "Strano - sussurrò Elisa a bassa voce - non aspettiamo altra gente, e in questa casa è da molto tempo che non ci vive nessuno". "Sarà qualcuno che ha sbagliato indirizzo"- disse la Zia". Fabio si alzò di scatto dalla sedia "vado a vedere chi è" disse, "vengo con te", rispose Elisa. I due si diressero verso la porta della villa, e poi nel vialetto che porta al cancello, tra i due di nuovo quello sguardo, a metà tra complicità e tensione. Lo scampanio, man mano che i due si avvicinavano al cancello, si faceva più forte e deciso, in fondo al vialetto, dietro al cancello, si poteva distinguere la figura di un uomo con al braccio un grosso bagaglio, ma ancora nell'oscurità della sera non si potevano distinguere i suoi lineamenti...
Nel frattempo, dentro la casa, Luciano fu colto da un profondo turbamento, sentendosi come dilaniato da due sentimenti opposti e complementari: da un lato l'indubitabile gelosia che si sentiva sorgere dentro per quella intimità che si era venuta e creare tra Fabio ed Elisa, usciti assieme nella notte; dall'altro la rabbia contro quella ingiusta gelosia, che non aveva alcun diritto di essere là, dato che aveva conosciuto Elisa da poco più di un quarto d'ora! Ma la natura effimera e vacua di quei sentimenti si rivelò improvvisa con l'inaspettato intervento di uno dei 3 giovani della comitiva, che si alzò e disse:"Scusate, mi chiamo Piero, e sono il fidanzato di Elisa." Luciano lo guardò esterrefatto, e assieme come alleggerit, e anche gli altri adulti avevano un'espressione sorpresa, forse più che altro perché Piero aveva usato un termine, fidanzato, che suonava davvero strano, pensò tra sé e sé zia Elda, sulla bocca di un giovane di oggi.
Piero proseguì:"Sono uno studente dell'Accademia di Belle Arti, e ho aiutato Elisa nella ricerca. Plinio Nomellini nacque a Livorno nel 1866 e morì a Firenze nel 1943, dunque non tantissimo tempo fa. Da giovane studiò con Giovanni Fattori, e fece parte della corrente dei Macchiaioli. In questo periodo la sua pittura è sociale e politica, e verso la fine dell'Ottocento, aderendo a movimenti socialisti ed anarchici, fu soggetto al famoso "processo pallone", basato su una montatura delle autorità. Successivamente si spostò verso il Simbolismo, tanto che alla Biennale di Venezia del 1907 contribuì ad allestire una "Sala del Sogno". Dedicò il resto della sua vita a ritrarre la natura e il mare in modo quasi neo-romantico, lavorando molto sulla luce e sui suoi misteriosi riflessi. Anche il quadro che abbiamo qui, come avete visto, ha come soggetto il mare, anche se si tratta di un dipinto insolito per quella roccia strana, quasi umana."
“Ma a questo punto - continuò Piero – il problema non è tanto il soggetto apparente del quadro quanto il suo contenuto nascosto - e a quell’accenno girò il quadro sul suo lato destro e con un dito circoscrisse una parte del dipinto da cui, come per magia, emerse chiaro l’ovale di un volto fino ad ora invisibile. Tutti rimasero ammutoliti di fronte a quell’apparizione. Sotto un leggero velo di pittura, infatti, erano adesso chiaramente individuabili i tratti di un uomo pasciuto, con baffi e bavero bianco e con un sorriso sornione quasi a voler dire “finalmente mi avete trovato!”
- Sarà una vecchia crosta su cui Nomellini ha dipinto sopra – disse Luciano – era cosa normale un tempo. Se un lavoro non era soddisfacente lo si copriva con un altro e si risparmiava una tela. Non era mica come oggi che basta andare da Amicucci per avere subito una nuova tela disponibile! –
- E’ vero - rispose Piero – lo so, era prassi comune, ma qui è diverso. Osservate il telaio al margine, dov’è inchiodata la tela e vedrete che ci sono almeno tre strati diversi di supporto pittorico: uno, il più profondo, di una specie di pergamena, un altro, incollato sopra, di iuta e l’ultimo, il più superficiale di tela comune. Non è una cosa normale! -
Elisa e Fabio nel frattempo erano quasi giunti al cancello, lo scampanio cessò. I lineamenti dell'uomo adesso si potevano intravedere. Barba lunga e bianca, lungo cappotto nero fin giù ai piedi, e in testa un basco verde. I due raggiunsero il cancello, l'uomo non parlava. Si fermarono - "chi sei?" - accennò con la voce rotta dall'emozione Elisa. Nessuna risposta. Fabio si fermò a fissare il bagaglio dell'uomo, era una valigetta rettangolare, larga e lunga, non profonda più di 5 dita. "rispondi alla ragazza- ribattè Fabio- che ci fai qui?". L'uomo fisso Elisa, e con un gesto lento si tolse il basco di testa, "ho necessità di parlare con la signora Magda Mancini", rispose l'uomo. "Magda??? E' mia nonna, è morta da 10 anni!!?? che scherzo è questo???!!". rispose Elisa frastornata. L'uomo non aprì bocca, ne fece trasparire emozioni. Fabio guardò Elisa con sguardo interrogativo, e poi l'uomo per capire bene con chi avevano a che fare...
Dopo qualche esitazione il vecchio sembrò realizzare ciò che aveva sentito, abbassò lo sguardo e appoggiò, piegandosi da un lato, il suo bagaglio a terra. - Sono Gaspare Lucini – disse sottovoce rivolgendosi alla ragazza - ma…Magda…non…non sapevo nulla…- e fece un gesto lento, quasi tremolante con la mano volgendosi verso la casa come per cercare lei, lì, bella tra le belle, alla finestra, come quel giorno di trentanove anni prima quando lui, sapendo di non tornare, si allontanava per un viaggio difficile. Né gli anni trascorsi in seminario e al Vaticano né i tramonti di Roma, infatti, erano riusciti a far dimenticare a Gaspare il sorriso di Magda, le passeggiate estive tenendole la mano stretta nella sua e quel bacio sfiorato al torrione di Santa Chiara… Magda, la sua Magda non l’aveva aspettato.
E per un attimo pensò di essere tornato per nulla. Allora d’istinto guardò a terra e indicando quello strano pacco che aveva portato con se, disse – Ho impiegato troppo tempo. Le carte che mi aveva chiesto e che ho cercato in questi anni a Roma non le serviranno più. – Elisa e Fabio si guardarono per una volta senza ambiguità e, come se avessero compreso il dolore di quell’uomo, cambiarono tono e lo invitarono ad entrare.
Gaspare s'incamminò con la valigia stretta in mano lungo il vialetto guardando la casa davanti a se, al suo fianco Elisa. Nel frattempo Fabio chiudeva prima una poi l'altra parte del cancello assicurandosi che il gancio facesse combaciare bene le due inferriate. Mentre li raggiungeva i suoi occhi erano fissi alla valigia che l'uomo portava con sè. Erano sulla porta di casa quando la luce illuminò il volto della ragazza e l'espressione corrucciata di Gaspare si alleggerì a quello sguardo che tanto lo riportava a Magda - I suoi occhi - pensò Gaspare - quest' espressione l' ho già conosciuta in un' altra donna... molto tempo fa.

Come i tre comparvero in casa il resto della compagnia, che nel frattempo era intenta ad osservare la tela nei suoi più intimi dettagli, si ammutolì; guardarono tutti quell’uomo col suo cappottone abbottonato e che sembrava venire da un altro tempo, senza fiatare. – E questo chi è? – si chiese tra sé e sé la signora Elda mentre portava in tavola un luminoso fiasco di vino rosso – è davvero la serata delle sorprese, questa! – e appoggiò sulla tavola imbandita la sua portata senza staccare gli occhi da quello strano avventore.

– Buonasera, il mio nome e Gaspare Licini… sono nato qua vicino, due poderi più avanti – disse il vecchio sospirando e con un breve cenno della mano - da giovane ho… ho… frequentato questa casa – e dopo una lunga pausa fissando il vuoto, aggiunse – si, tanto, tanto, tempo fa,…ero…amico di famiglia dei proprietari i signori Zucchi, Gilberto, Betta e…Magda…- e dopo un altro sospiro continuò - avevo saputo della dipartita dei vecchi…ma di Magda …non sapevo… – a quel punto intervenne Elisa anche per interrompere uno strano imbarazzo che si stava creando tra i commensali – il signor Licini doveva consegnare – e guardò come per avere conferma, il vecchio – dei documenti riportati da Roma a Magda Zucchi che era … - e qui fece anche lei una pausa seguita da una involontaria contrazione della voce – mia nonna -

Ma ormai Gaspare era stato rapito da un flask-back di 60 anni. Quel cancello varcato mille e mille volte a perdifiato, quel vialetto solcato di corsa, ogni mattina d'estate ,quando terminata la scuola , la vita finalmente sembrava iniziare. Con Magda e suo cugino Gabriele aveva trascorso interminabili giornate, indaffarate alla scoperta di genuine emozioni, a caccia di fantomatici guerrieri e variopinte principesse.

E, senza che alcuno sospettasse quale valore avrebbe avuto il racconto di Gaspare per la risoluzione del dilemma che aveva riunito i protagonisti attorno a quella tavola, il vecchio inziò a spiegare: - Vista l' ora cercherò d' esser breve ma la storia ebbe inizio un' estate di tanto tempo fa. Sapete , da quando gli Zucchi acquistarono la villa per farne la residenza estiva di famiglia, ho trascorso in questa proprietà i momenti più belli della mia gioventù. Si interruppe nel timore di perdersi in una loquela inopportuna. Ma fu solo un istante - Insomma, quell'anno mentre io Magda e Gabriele giocavamo a "cut" scovammo, nascosta sotto i mattoni del solaio della soffitta, una specie di cartella di cuoio legata con un nastro per tutti e quattro i lati.

La curiosità era tanta che non resistemmo. Aprimmo quella strana cartella e trovammo un quadro a firma di un certo Nomellini che, per come era custodito, presumemmo dovesse essere una cosa importante…- in quell’istante alzò gli occhi e vide davanti a se, sul tavolo imbandito e sorretto da uno di quei giovani, il dipinto di cui stava raccontando. Rimase senza fiato e senza parole. I suoi occhi azzurri d’un tratto si accesero come se davanti ad essi ci fossero lì, in quel momento, la soffitta, le mani di Magda sulla cartella, la polvere in controluce…- ma..- disse - …quel dipinto è proprio lui, quello che trovammo allora, dove lo avete preso? Come mai è nelle vostre mani? – A quelle domande Elisa, che ormai era diventata il centro di quello strano universo misterioso, rispose come meglio poté e proseguì pregando Gaspare di continuare col suo racconto.

- Si – disse lui senza togliere lo sguardo dalla tela – i ritrovamenti non finirono li perché in una busta infilata dietro, tra la tela ed il telaio di legno, c’era anche una busta di carta gialla e chiusa con cera lacca. Quando Magda la prese in mano la girò più volte su se stessa nel vano tentativo di vedere cosa contenesse poi, dopo qualche esitazione e con un tacito e condiviso assenso, l’aprì. Al suo interno un foglio bianco con su disegnata la piantina di una piccola chiesetta con annessa un’altrettanto piccola cripta sottostante -

Eravamo ragazzi: non ci parve vero di trovarci fra le mani la vera mappa di un vero tesoro! Passammo diverse ore a interrogarci su dove potesse trovarsi la chiesa. Già ci s’immaginava noi tre, ricchi e felici, passare la vita a viaggiare e a divertirci. Il buon vino, cominciavamo già a conoscerlo; e poi banchetti. Feste. Vestiti sempre nuovi. Crociere oltre l’oceano, a vedere da vicino l’America! E poi musica, e tanti, tanti soldi! Soldi per… non lo sapevamo nemmeno. Non eravamo più bambini, ma ancora nemmeno adulti; e pure ancora molto ingenui. La guerra era finita da poco, cominciavamo a conoscere qualche agio, ma ancora non si viveva certo nell’abbondanza, men che meno nello spreco… Ma scusatemi – si interruppe Licini – sono solo i ricordi di un vecchio.

A farla breve, per diversi giorni mantenemmo il segreto più totale su nostro ritrovamento. Poi, Gabriele si lasciò sfuggire qualcosa riguardo alla mappa di un tesoro. Ne parlò con il nonno di Magda, che durante le vacanze seguiva la famiglia a Ca’ Bella, e passava i pomeriggi a giocare a carte e a bere un bicchiere con i vecchi di Castel Cavallino che volentieri lo raggiungevano al fresco della loggia. Il nonno gli chiese di vedere la mappa, e non fu possibile sottrarsi; la mostrò ai suoi compagni, che si appassionarono all’argomento: una mappa del tesoro! Qualcuno, come noi, pensava già di diventar ricco; un altro sogghinò che di sicuro qualche soldato di una guerra o dell’altra doveva già esser passato di là e aver fatto piazza pulita. I vecchi, un bicchiere dopo l’altro, alzavano sempre più la voce, e il nostro segreto già non era più tale.

Magda e io, seduti sotto la loggia insieme agli altri per ripararci dal sole di quel pomeriggio di agosto, davamo a Gabriele gomitate stizzite, ecco che la nostra avventura andava in fumo, e tutto per colpa sua!Invece, l’interesse scemò in fretta. Il sole calava, i vecchi si accingevano a rincasare e la mappa rimase lì, sul tavolo, con l’ombra tondeggiante di un bicchiere di rosso. Uno degli ultimi ad allontanarsi le diede un’ultima occhiata, e salutando aggiunse distrattamente:

- Pare San Cassiano.

Non ci parve vero: avevamo un indizio!

Il giorno successivo, di buon mattino, partimmo alla conquista della Pieve. Ci sembrò un viaggio lunghissimo, in realtà da qui non dista che un chilometro; fra qualche ora, quando farà giorno, potrete ammirarla, dalla finesta della sala, quella aperta verso nord.

Ma quella volta non era mica come adesso, bella, ripulita, con il cancello e il vialetto e le aiuole. Ci andammo una prima volta di pomeriggio; c’era un funerale, in tutto una ventina di persone. Finita la messa si allontanarono in silenzio dietro il parroco e il carro, e quando furono in fondo, dove la strada curva verso il cimitero, noi tre rimasti in coda tornammo indietro, a cercare nel fresco della chiesa l’accesso alla cripta. Trovammo la scala che scendeva, e la piccola porta; ma un giovane diacono ci sorprese, e fuggimmo di corsa giù per la collina.

Arrivammo poco oltre l'albero imponente che altri avrebbero in seguito chiamato "Il Pino del Pascoli", poi un leggero declivio ci nascose agli occhi del mondo per farci cadere su un mucchio di fieno appena tagliato. Non avrei dimenticato mai più l'intensità di quel profumo che ci stordì i sensi e... ma sì, è passato tanto tempo, e voi siete giovani, capite... insomma, ci ritrovammo in unico abbraccio, con Magda a guardare il cielo mentre io e Gaspare la baciavamo frugando in lei alla ricerca di chissà cosa. Credevamo che fosse felicità invece quel giorno perdemmo l'innocenza per sempre. Da quel giorno non saremmo più stati gli stessi. Avevamo conosciuto la nostalgia e quel senso di perdita di sé che allontanando dal passato presente la fine.